
La parola Cura
La Medicina è una scienza umanistica, e la parola cura.
È una riflessione importante, che mi è ritornata in mente chiacchierando con l’Architetto Eleonora Guzzo (che è l’autrice del nostro fantastico logo, a lei di nuovo il mio più grande grazie).
La medicina dicevamo è quindi fatta di ricerca, di strumenti, di tecnica e di numeri.
Ma, a differenza delle scienze applicate pure, ha a che fare con l’uomo.
È una scienza quindi che crea un rapporto, tra medico e paziente, ed è qui che la faccenda si complica diventando affascinate.
La cura è sfaccettata come un diamante e come tale è bella e preziosa.
La cura è un atto tecnico, un’azione fatta dal curante sul paziente. Che a lui si affida.
Ed è proprio quell’affidarsi, quella fiducia, che rende l’atto non più un tecnicismo e basta.
Diventa uno scambio.
Il tocco del medico, il farsi toccare del paziente.
Che non è passivo, tutt’altro, è parte integrante di un percorso che si fa in due.
In questo scambio, in questa cura, diventa poi fondamentale il mezzo.
La Parola.

«… insegnerò la medicina ai miei figli, ai figli del mio maestro, agli allievi legati dal Giuramento medico, ma a nessun altro…»
È un passo dell’antico Giuramento di Ippocrate, che disegnava di fatto il grande problema della Medicina: l’essere elitaria nel linguaggio.
Alta e altra, irraggiungibile, quasi magica. Il medico forse non è la continuazione moderna ( e per fortuna enormemente evoluta) dello sciamano guaritore?
La lingua della Medicina va studiata ed è un viaggio lungo e antico.
Dalla Grecia a Roma, passando per le influenze delle lingue semitiche e del mondo arabo, il latino e il volgare del tardo medioevo.
Da qui il Rinascimento, con la rivoluzione dello studio anatomico, fino ad arrivare su su al Secolo dei Lumi, con una terminologia sempre più tecnica, sempre più complessa.
La lingua dei medici appare strana, con vocaboli difficili, le parole non bastano mai, i suffissi e i prefissi prendono una vita propria, i sinonimi non si contano.
Non immagini il mio stupore quando, sfogliando il dizionario medico/italiano, scoprii studente al primo anno che la carie la si può chiamare anche Saprodontia…
Spesso il “medichese” fa da barriera, ci protegge: quando una malattia ci è ignota nell’origine, quando non capiamo da dove nasce, la definiamo “di origine idiopatica”.
È assolutorio per noi (ammettere che non ne sappiamo nulla fa male), è consolatorio per il paziente (se il dottore non ha idea di cosa abbia, sono spacciato…)
La Parola quindi è complessa. E io sono sempre in bilico.
In bilico tra quello che la mia scienza racconta e la necessità di tradurlo a chi scienziato non è.
In bilico per raccontare una storia che sia vera, non romanzata.
Perché la cura è un rapporto e in un rapporto non si può mentire.
La medicina comincia con un racconto.
I pazienti raccontano storie per descrivere una malattia;
I dottori raccontano storie per comprenderla.
La scienza racconta la propria storia per spiegare le malattie
Siddharta Mukherjee
Il mio compito è credere al paziente. Ascoltarlo, ascoltarti.
Il mio compito è parlare al paziente, parlarti con tutto quello che la mia intelligenza e la mia esperienza mi consentono di fare.
Per agevolarti, per aiutarti a guarire.
Si, perché se è vero come è vero che la cura la posso fare io, in realtà la guarigione la puoi fare solo te.
Tiziano Terzani, un uomo saggio che è stato malato e che si è affidato alle cure del mondo, in un libro commovente, “Un altro giro di giostra”, ce lo spiega chiaro e forte:
“Il paziente non lo sa, ma il vero medico è quello che ha dentro di sé. E noi abbiamo successo quando diamo a quel medico la possibilità di fare il suo.”
Lo dicevamo prima. Funziona solo se si lavora in due, io e te.
Ho avuto la fortuna, anni fa, di ascoltare Eugenio Borgna, psichiatra e uomo dalla cultura infinita. Un incontro che ha segnato la mia idea di medicina.
Il prof. Borgna, ne “La comunicazione perduta”, ci indica un altro piccolo ma fondamentale tassello:
“Questo è il compito, non facile ma necessario, di chi cura: creare relazioni umane che consentano al malato di sentirsi capito e accettato nella sua fragilità, e nella sua debolezza…
(…) sintonizzarsi con il tempo interiore, con il tempo vissuto, può aiutare a sentire e vivere la malattia come qualcosa che fa parte di un destino comune a chi cura e a chi è curato.”
Quando faccio un’iniezione, ed è una cosa che nel mio lavoro faccio di continuo, un istante prima di agire mi si ferma il respiro.
Anche dopo tanti anni, anche con l’introduzione di tecniche anestesiologiche del tutto prive di dolore, continuo a fermare il respiro.
Perché il mio paziente è lì che aspetta, lo sguardo che non sa dove posarsi, il cuore accelerato, è normale che abbia paura, mi sembra sempre un regalo che si faccia toccare.
Che si lasci toccare da me.
Ed io sento tutta la responsabilità di questa concessione.
Faccio quindi quello che ci si aspetta da me, rassicuro con le parole e con la mano.
Massaggio piano il labbro, Michela prima ha messo un po’ di crema per non farti sentire la sensazione fastidiosa di essere strattonato, bagno lo specchietto perché se asciutto fa attrito, e l’attrito è una noia.
E si ferma, per un attimo, il mio respiro.
E avanti così, iniziamo la cura, che nel mio caso è chirurgica. Nel senso etimologico del termine, cioè fatta con la mano.
La mia disciplina, l’odontoiatria, ha quest’ulteriore problema: è un atto manuale.
Quindi occorre usare la parola per raccontare la cura, usarla durante la cura per renderla accettabile, e tradurre infine con la mano il racconto fatto.
E questa traduzione, ti assicuro, è tremendamente difficile (merita un articolo a parte, ne riparleremo presto).
Alla fine completiamo il lavoro.
Studiamo, lavoriamo, cerchiamo risposte e nuove domande, ma ogni giorno, ogni nuova cura, alla fine dei conti è un atto di felicità e funambolismo.
È delicata, la felicità. Non sei un funambolo e avanzi passo a passo, non sai niente dei giorni, cammini sul filo, non vedi lontano. Se guardi in basso hai le vertigini, non guardare. In basso tutti gli uccelli si raggelano e tutti gli uomini si proteggono. Tu cammini in alto, ma è difficile, la felicità. Rischi ad ogni passo, avanzi docile. In ogni rischio c’è felicità. Vai verso te stesso e il filo non ha fine”
Philippe Delerm, “il portafortuna della felicità”
P.S. quando decidi di chiamare per fissare un appuntamento, sappi che ci organizziamo per accoglierti in questa maniera, lieti del dono che ci fai, e pronti per restituirti la cura che desideri di più.
che bella lettura stamattina!
grazie Rosanna!