Sono un medico e sono cattolico. Per come la vedo io, sono due facce di una stessa medaglia.
La cura, di cui parlo sempre, alla fine nasce da qualcosa di profondo. Qualcosa di filosofico e, passami il termine, spirituale.
Non so perché scrivo questo articolo, alla fine sei qui per avere notizie utili per la tua salute, perché mai dovresti interessarti ai ragionamenti di un dentista di campagna in cerca di risposte. La mia presunzione è che sia più semplice affidarsi alle cure di chi si conosce: almeno un po’, è bene alzare il sipario e sbirciare dietro le quinte.
Se ti va quindi prova a seguirmi su questi passi che mi hanno portato, nella prima domenica di primavera, verso il “monte che più sacro non ce n’è”.
Parto per La Verna al mattino presto, il sole scalda tutto, anche la macchina che odio. Potessi andrei solo a piedi. Il pellegrinaggio richiede una fatica, per me sono 3 ore di guida. A Castelfocognana iniziano le foreste casentinesi che ancora dormono per l’inverno. Gli alberi spogli mi fanno sempre paura, riusciranno a svegliarsi? Qui si sente ancora il rumore della guerra dei nonni, sono strade battute da santi, briganti, soldati e pellegrini. Niente appare casuale.
Appena posso lascio la macchina, ero stato quassù anni fa e ricordo con disappunto il parcheggio turistico. Orde di gente urlante, bimbetti che corrono, macchine impazzite a cercare un posto più vicino possibile all’ingresso. Detesto la confusione, il rumore è per me una violenza, specialmente in posti dove occorre solo ascoltare (sempre ammesso che uno ne sia capace).
Prendo quindi l’antica mulattiera , so per certo che qui i turisti non ci saranno, troppa fatica e troppe scomodità. Per chi non è spaventato da quattro passi si apre invece il regalo dei prati che nascono. Tra gli alberi antichi, tra le pietre scelte dagli uomini, iniziano a spuntare piccole primule viola: campanelli che sorridono a un inverno ormai passato. Non posso evitare di soffermarmi, una di loro nasce tra due sassi, si nutre forse solo di luce e vento? Dietro di lei, alla prima curva, il maschio di roccia che sostiene il santuario.
Francesco, salendo qui per la prima volta, verrà accolto da un concerto di uccelli, la foresta che intera fa festa e sceglie il modo più delicato per accoglierlo. Non sono nessuno, ma gli uccelli cantano anche quando passo io, sono solo e mi commuovo.
Arranco verso l’alto, Dio mio devo allenarmi, se avessi avuto questo fiato corto non sarei mai arrivato 10 anni fa fino a Santiago. Arrivo alle porte del convento, quelle laterali che accolgono i coraggiosi come un tempo, e fiero mi avvio a salutare la grande croce davanti la meridiana.
Qui splende sempre il sole, la neve che ancora c’è si scioglie placida, sembra quasi non dispiacersi nell’andarsene. Il vento soffia piano, le persone sono fuori luogo e il loro vociare fa rimpiangere gli uccelli del bosco che ormai non sento più.
Mi fermo un attimo a prendere il sole in faccia, un po’ stizzito per la confusione, credo lo si noti. Però il calore del cielo si sente, mi scioglie un po’ e chiudo gli occhi sognando…
“Abbi pazienza, alla fine le risate non sono un rumore, no?” Un prete anziano si siede accanto e si presenta così, mi ha subito inquadrato!
Mi strappa una risata, respiro di nuovo.
“Perchè sei qui?” Chiede lui.
“Come tutti credo, per delle risposte. E Lei perché è qui?”
“Accompagno quella mandria di ragazzini, siamo in pellegrinaggio” esclama ridendo il mio nuovo amico.
“E per quanto riguarda le risposte – continua il don- le otteniamo sempre, il problema è che spesso siamo così sordi da non poterle capire”
Don Paolo ha quasi sett’antanni, viene dal Piemonte, un paesino delle langhe di cui onestamente non ricordo il nome. E viene fuori, caso strano, che è quasi un collega medico!
Studiava medicina a Torino, al 4 anno però si ferma. “Possiamo definirla una chiamata, di sicuro non ero felice. Mi sentivo fuori posto, i libri non erano un peso ma lo era la vita in corsia. Le cose all’epoca erano diverse credo, sta di fatto che sentivo l’impossibilità di affrontare la cura. Come potevano le mie mani farsi tramite di un gesto che ripara, che mette una pezza a ciò che il destino e la biologia chiamano malattia? Chi ero io, piccolo e solo, per ergermi a rimedio? Forse sono scappato, almeno così pensavo all’epoca, la responsabilità di non fallire era una menzogna.”
Rivedo in lui i dubbi che spesso mi stringono. Passo le giornate a tentare di riparare, ad ascoltare e a rimediare. Le persone si affidano a me, e Dio solo sa quanto vorrei essere infallibile. Invece, piccolo uomo, sbaglio e mi piego. Il chirurgo bravo, ci insegnano a scuola, non è quello che non subisce fallimenti, al contrario è colui che riesce a rimediare agli errori che inevitabili ci fanno da ostacolo.
“Ripensando alla mia vita, ho scelto di servire in un altro modo. Forse più affine alla mia natura, forse per me la cura veniva dall’ascolto e dalla parola. Dimmi Riccardo, tu li riconosci i tuoi talenti? Pensi di metterli a frutto e di creare qualcosa?”
Ovviamente mi spiazza, non so dare una risposta: ripenso alla mia squadra, alle famiglie che vivono grazie alla mia piccola azienda. Penso al sacrificio personale, a ciò a cui ho rinunciato per creare tutto questo, alla fine ne sarà valsa la pena? Alla fine la tecnologia a cui tanto mi affido, servirà veramente?
“Non lo so don, ultimamente non trovo tante risposte, però penso che non potrei fare altro se non quello che sto facendo da anni. Costruisco, mattone su mattone, da sempre. Non per presunzione, io credo di essere mediocre e l’ultimo degli ultimi, ma provo a superare i miei limiti con il lavoro duro. Non so se ci riesco, è che altro non so fare.”
Suona la campana della basilica maggiore, ci richiama alla messa. Saluto e mi incammino, le panche della Chiesa sono un luogo familiare. Almeno qui, non sento nulla che assomigli al dubbio o al dolore.
Non pranzo, oggi si fa pellegrinaggio preghiera e penitenza, salgo ancora verso la vetta. Il monte Penna mi accoglie come sempre, di nuovo lontano dagli uomini, fratello vento spettina gli alberi pronti a rinascere. Una pietra fa da poltrona e leggo, scrivo e ripenso. Lunedì arriva un nuovo macchinario, l’ennesimo investimento. Una rincorsa contro il tempo e contro le mie fragilità per cercare qualcosa di più, qualcosa di nuovo, qualcosa che mi definisca. Una nuova sfida, sarò in grado di utilizzarlo? Saprò sfruttare a pieno le sue caratteristiche per offrire qualcosa di migliore ai miei pazienti?
Difficile dirlo, sarà un altro cammino lungo e complicato. Ma alla fine questo si deve fare, prendere e andare. A volte ci si ferma ad ascoltare il bosco o un anziano prete lontano, ma alla fine le risposte sono solo dentro di noi. Per chi crede, Dio bussa alla nostra porta ogni giorno, una porta che guarda caso ha la maniglia solo dal nostro lato.
Avere la forza di aprire, di abbandonarsi, di dire si, forse sono queste la conquiste più difficili da ottenere.
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